giovedì 31 ottobre 2024

Il Paleocene è bello, ma non ci vivrei

Per tutti i fan dell'uso smodato del termine "Antropocene", mi sia permesso dire, che al netto delle angosce, alla fine, climaticamente parlando, non è poi così originale.  A conti fatti, infatti, ci stiamo sostanzialmente per fare un viaggio a cavallo tra Paleocene ed Eocene, grosso modo 55 milioni di anni fa. Potrebbe essere questo un incipit per far gioire quelli del "appunto il clima è sempre cambiato" e "ci sono stati momenti anche molto più caldo di adesso", quelli che negano l'azione antropica sul clima e, quindi, la necessità di adottare un modello socio economico più sostenibile, meno energivoro e soprattutto con meno emissioni di CO2. 

    E' indubbio che il clima sia sempre cambiato e che sia stato anche molto più caldo dell'attuale. Tutto vero. Ma noi, Homo Sapiens, ci siamo evoluti in una data fase climatica e i cambiamenti repentini del clima, come quello in atto, non sono mai stati particolarmente positivi per la biosfera del momento. Per cui, preso atto che le nostre attività impattano in maniera tutt'altro che irrilevante, non necessariamente variando la traiettoria di mutamento del clima terrestre che questo naturalmente forse avrebbe comunque, ma sicuramente accelerandola non poco. Abbracciare il principio che, se non possiamo impedirli, per lo meno non dovremmo favorire le variazioni a noi sfavorevoli, non mi sembra un concetto così ostico, come molto spesso, invece, sembrerebbe. Possiamo discutere sul come, ci mancherebbe, ma sul perché... 

    Dicevamo del Paleocene, un recente studio ricostruisce la transizione climatica del PE (Paleocene - Eocene) per l'area Mediterranea (1), questo è molto interessante perché climaticamente parlando lo scenario è molto simile a quello del RCP 8.5 (2) (Representative Concentration Pathways, RCP - I Percorsi Rappresentativi di Concentrazione sono scenari climatici, elaborati dall'IPCC - l'organismo scientifico internazionale che si occupa dello studio del cambiamento climatico - espressi in termini di concentrazioni di gas serra piuttosto che in termini di livelli di emissioni.  Il numero associato a ciascun RCP si riferisce al Forzante Radiativo (Radiative Forcing – RF), ossia quello in cui non vi sia nessun intervento sulle emissioni di CO2 e si raggiunga un aumento globale di circa 5°C della temperatura planetaria.

     Il passato ci racconta spesso, almeno in Geologia, il futuro. Certo la geografia mediterranea oggi rispetto al PE è diversa, in allora il Mare Nostrum non aveva un perimetro così ben definito ed era un susseguirsi di arcipelaghi, con le Alpi in formazione e un livello eustatico più alto, però, elementi utili per un raffronto ne troviamo. Lo studio della Sezione di Strada Contessa, a Gubbio (sempre a Gubbio di trovano certi affioramenti...) ha permesso di evidenziare come l'area mediterranea fosse caratterizzata da intense e prolungate fasi siccitose, intervallate da fasi più brevi di intensa instabilità con forti eventi di tempesta, sostanzialmente dando una connotazione subtropicale all'area. E' proprio quanto lo scenario RCP 8.5 prevede, una costante e decisa estremizzazione climatica, con un aumento del livello del medio mare, con tutte le conseguenze di cui ho trattato in altri post.

     Ora aggiungiamo che nel Mediterraneo di fine Paleocene, Homo Sapiens era ben lungi da essere presente. Ma oggi c'è e ben insediato nel suo habitat prediletto: la città. L'area Mediterranea è intensamente urbanizzata. Le aree urbane sono caratterizzate dall'avere microclimi soggetti a eventi metereologici intensi e improvvisi. Questo è ben evidente in uno studio che ha condotto un puntuale monitoraggio degli eventi di tempesta che hanno interessato alcuni importanti centri urbani, scelti come campione. Tra di essi, la città di Milano (3). Rispetto alle aree contermini, nelle città sono più frequenti e intense, e tendenzialmente concentrate verso il tardo pomeriggio - sera. Sono eventi di difficile previsione a causa della loro repentinità. La predisposizione a tali fenomeni delle aree urbane si deve in primis alle "isole di calore": le città emettono calore, che generano correnti calde ascensionali, correnti assai umide per via della forte evapotraspirazione, più marcata rispetto alle aree rurali per la maggior impermeabilizzazione del suolo. Queste masse d'aria calda e umida una volta raggiunti gli strati superiori dell'atmosfera, più freddi sono soggette a rapida condensazione in gocce dell'acqua in sospensione, la "coalescenza", ossia il raggruppamento delle stesse in cumulo nembi o in grandine è favorito dagli aerosol urbani - mix di particelle solide in sospensione aeriforme - il che rende più rapida la formazione di celle temporalesche e supercelle, molto localizzate. Va da sé che l'essere maggiormente soggetti a eventi di tempesta intensi, essere aree molto impermeabilizzate, aumenta il rischio alluvionale. 

Il Mediterraneo, quindi, sta diventando un'area subtropicale, con tutte le estremizzazioni del caso, soggetta ad innalzamento eustatico (4), con tutte le criticità che ciò comporta per le aree costiere e le dinamiche dei corsi d'acqua e altro, i record geologici ci dicono che questo trend comporterà un'alternanza di fasi siccitose e di instabilità severa, di questo ci serve consapevolezza ed il rapido avvio di azioni strutturali (5) per affrontare questi scenari - che anche al netto di una rapida ipotetica decarbonizzazione - sono tutt'altro che ipotetici.


(1) https://www.nature.com/articles/s41467-024-51430-6

(2) https://www.cmcc.it/it/scenari-climatici-per-litalia

(3) https://agupubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1029/2024EF004505

(4) https://www.nature.com/articles/s43247-024-01761-5

(5) https://lavoce.info/archives/106233/bisogna-adattarsi-il-clima-e-cambiato/

venerdì 5 luglio 2024

Il Futuro Prossimo della Laguna di Venezia

Ho più volte esposto gli esiti di numerosi studi che tracciano i possibili scenari evolutivi della Laguna di Venezia e delle aree limitrofe da qui al 2100 in funzione delle previsioni relativamente agli assetti climatici globali e delle loro interazioni con le peculiarità geologiche di quest'area, gli effetti delle attività antropiche e le dinamiche ambientali locali. 

Le previsioni, basate sui dati raccolti plurimi progetti di monitoraggio condotti su più parametri ed elementi da vari soggetti tecnico-scientifici e sulle sempre più sofisticate modelizzazioni, sono ormai sempre più accurate e soprattutto attendibili. E' bene ribadirlo, poiché troppo spesso sia per i media, che per l'opinione pubblica e i decisori istituzionali le conclusioni delle varie ricerche spesso sono ho sottovalutate, o peggio derubricate a catastrofismo porta sfortuna.,

Si dovrebbe, invece, farne accurata valutazione sia per la pianificazione di misure di mitigazione ed adattamento, sia per inquadrarvi i ragionamenti sui prossimi interventi infrastrutturali in ambito lagunare. Ciò invece non avviene o, alla meglio, avviene in modo molto contenuto. La parcellizzazione delle competenze e l'azione spesso disarticolata dei vari soggetti operanti nell'ambito, non produce un processo lineare di salvaguardia, tutela e gestione di quest'area, ma più che altro, una complessa dinamica di plurimi effetti, non sempre chiari, non sempre positivi.

La Laguna di Venezia si estende su un'area di 550 km quadrati, con profondità media di un metro, con però morfologie complesse e canalizzazioni artificiali di maggior batimetria, vi sono elementi peculiari come le barene, le velme, piane tidali, canali. Come noto,  l'intervento antropico sui canali e corsi d'acqua del bacino scolante, sulle bocche di porto hanno profondamente influenzato l'evoluzione e le dinamiche ambientali di questo territorio, con particolare intensità in questi ultimi due secoli, modificandone sensibilmente i destini, iniziati oltre 6mila anni fa.

Attualmente i fenomeni che determinano i processi di trasformazione della Laguna sono  globali, in particolare l'aumento del livello eustatico - l'innalzamento dei mari (Sea Level Rise - SLR) e locali, quali soprattutto la subsidenza, l'abbassamento dei terreni per compattazione (Vertical Land Movement .VLM), il combinato disposto dei 2 processi è un incremento del livello relativo del medio mare  (Relative Sea Level Rise - RSLR)1. Il SLR si deve essenzialmente alle dinamiche climatiche su scala planetaria che portano allo scioglimento delle calotte polari, mentre il VLM è dovuto per lo più alle peculiarità della litostratigrafia regionale e all'assetto idrogeologico.

La vulnerabilità a tali fenomeni, però, non è ugualmente uniforme negli scenari futuri prossimi, in tutto l'ambito lagunare, anche se generalmente crescente, i modelli mostrano che da qui al 2050 - dopodomani praticamente - è la Laguna Nord quella maggiormente esposta, il rischio di un suo più rapido deterioramento è, perciò, un elemento non più eludibile. 

L'incremento del RSLR implica compromissioni di servizi ecosistemici, con effetti su diverse attività economiche, un maggior esposizione a mareggiate intense delle aree litoranee e costiere, con incremento della loro erosione, una maggiore frequenza degli allagamenti nelle aree perilagunari.

A livello globale si stima che il SLR sia di 4mm/anno, in crescita  esponenziale rispetto ai tassi del secolo scorso. L'arretramento delle coste a causa di tale fenomeno da qui al 2080 porta a stimare costi economici di 18miliardi di euro.

Per la Laguna di Venezia significa, per esempio, l'aumento delle acque alte eccezionali, quindi, una maggior frequenza nell'attivazione del MOSE, che però rischia nell'arco di un sessantennio di affrontare fenomeni oltre la propria capacità tecnica.

Di questi elementi oggettivi, però, da molte rilevazioni emerge una lo non adeguata consapevolezza da parte dei portatori di interesse 2. Dove intendiamo le categorie economiche, i cittadini e le loro espressioni istituzionali e associative, che quindi, sono spesso poco "solerti" sulle misure da intraprendere. Questo porta spesso a privilegiare azioni di rapida esecuzione e visibilità, rispetto ad altre a medio-lungo termine. Ovverosia si rimandano quegli interventi che hanno costi nel presente e potenziali benefici nel futuro (quandanche non necessariamente remoto).

Ecco, perché, è necessario il massimo sforzo di comunicazione e divulgazione da parte della comunità scientifica e tecnica. professionale, rispetto a tali questione per far sì che l'opinione pubblica e istituzionale divengano pienamente consapevole di ciò che ci si sta rapidamente parando davanti e si inizino a prendere con determinazione quelle decisioni che competono al presente e che sono, oggi, invece, demandate ad un futuro in cui potrebbero verosimilmente risultare tardive.

riferimenti:

Vulnerability of tidal morphologies to relative sea-level rise in the Venice Lagoon

Sea level rise and extreme events along the Mediterranean coasts: the case of Venice and the awareness of local population, stakeholders and policy makers


sabato 22 giugno 2024

Se si vincola il riciclo

Ritengo ci sia una sorta di profonda contraddizione, se non persino ipocrisia, in tema di riciclo ed economia circolare. Nelle dichiarazioni, propositi e intenti, non c'è cittadino, politico, Ente o Istituzione che non si dica a favore del riciclo e del recupero e della necessità di rendere risorse i rifiuti. Ma si sa, la teoria è una cosa, la pratica un'altra. Non si spiega altrimenti l'idiosincrasia dell'opinione pubblica, la strumentalizzazione politica e le diffidenze delle istituzioni quando si parla di realizzare un impianto di recupero. A prescindere dalla tipologia, anche il più semplice, anche per i rifiuti più banali. 

Qualcuno racconta che basti differenziare i rifiuti, quindi con un sana civismo di cittadini e imprese, per poter trasformare i rifiuti in risorsa. Peccato che non sia così, che il riciclo richieda passaggi impiantisti e processi tecnologici via via più articolati e complessi a seconda del tipo di materiale e della tipologia di rifiuto in partenza. E peccato che spesso i costi di trasporto, se i centri di recupero sono oltre certe distanze, possano essere tali da rendere non sostenibile l'invio a trattamento, con conseguente preferenza allo smaltimento in discarica o in incenerimento. Ecco perché è necessaria una localizzazione ragionata degli impianti di trattamento, per poter soddisfare i bisogni dei territori in un quadro di sostenibilità economica. In Italia le disomogeneità geografiche sono piuttosto consistenti e questo genera profonde disparità nelle performance di recupero del paese. 

I Piani Regionali di Gestione Rifiuti, dovrebbero per l'appunto favorire l'insediamento di una rete impiantistica adeguata ai fabbisogni del paese, certo nel rispetto dell'ambiente e soprattutto all'insegna della sostenibilità. Ma non è sempre così. Porto un caso che mi sto trovando ad affrontare nella mia vita professionale.  La Regione Veneto con il suo Piano Regionale di Gestione Rifiuti, aggiornato con DGRV n. 988 del 9 agosto 2022,  ha individuato dei criteri di esclusione assoluta, ossia dei casi in cui, ai fini della tutela ambientale, della riduzione del consumo di suolo etc etc, non sia possibile realizzare nuovi impianti di trattamento rifiuti o espanderne di esistenti. Si dirà che ciò è un bene per la tutela dell'ambiente e della salute. Queste esclusioni valgono in aree con particolari vincoli, quali per esempio l'ambito UNESCO della Laguna di Venezia, o aree con vincoli per esempio idrogeologici.

Al di là che far fare più strada a mezzi carichi di rifiuti, mi par sempre opzione ben poco all'insegna della sostenibilità ambientale, viene da chiedersi perché vincoli simili valgano solo per gli impianti di recupero e non più in generale. Ossia, nel caso dell'area UNESCO, io posso serenamente realizzare un mega ipermercato, un impianto di biogas, un complesso industriale siderurgico, certo con tutti i crismi e le procedure, consumando suolo e irrigidendo ulteriormente gli assetti territoriali, ma non posso potenziare il sistema impiantistico di prossimità per il trattamento dei rifiuti prodotti in un'area densamente abitata, con importanti sistemi industriali, che quindi necessita di una capacità di trattamento dei suoi rifiuti che stia al passo con le esigenze. Posso insediare attività che producono rifiuti, anche molti, ma non posso potenziare i sistemi per la loro gestione, costringendomi a dover andare altrove, con tutti i costi e gli impatti del caso. 

Questo nonostante gli impianti di trattamento siano fatti con tutti i crismi e gestiti al meglio.

Io penso che ciò sia sostanzialmente figlio di una, ormai purtroppo consolidata opinione negativa - in parte anche per alcune malegestio, è da ammetterlo - sui gestori/trattatori di rifiuti, a parole visti come operatori ambientali, nei fatti come conduttori di attività che è bene siano fatte lontano dagli occhi. L'incapacità di vedere il recupero dei rifiuti come un normale processo industriale da svolgersi in un quadro di tutela ambientale e sostenibilità economica, dirò anche di più, di remuneratività, anziché come un servizio necessario, ma sgradevole, nonostante l'impatto economico che questo ha sui costi di sistema di un territorio, rende l'economia circolare un esercizio retorico e lo sviluppo sostenibile una velleità.

lunedì 15 aprile 2024

Il riciclo dei C&D tra buone pratiche e contraddizioni

L'attività di gestione ambientale in un impianto di produzione di aggregati riciclati pone questioni che si articolano tra concetti tecnici e normativi, spesso con una non facile conciliazione dei due ambiti.

La valenza dell'aggregato riciclato (o End Of Waste - EOW, come si dice oggi) in termini ambientali è indubbia, per contenimento delle emissioni di CO2 dei processi produttivi, riduzione di consumo di matrici ambientali, ottimizzazione delle movimentazioni, recupero di materia, contenimento costi e consumi energetici l'impatto ambientale del sistema è sicuramente positivo, ossia verso il segno della sostenibilità. 

Ciò nonostante le normative ed alcuni pregiudizi, radicati anche nelle PA e negli enti di controllo non ne rendono sempre agevole l'impiego. Basti pensare al fatto che vi sono richieste di parere per l'uso di EOW in luogo di materie vergini, come se questi alla fine fine fossero sempre segnati da una sorta di marchio di Caino, anziché di recupero. Se è pur vero che nel mare magnum dei produttori di aggregati riciclati non mancano i furbastri, lo è altrettanto il fatto che riconoscere gli operatori seri non è così difficile, sistemi di gestione tracciati e puntuali sono ormai molto diffusi e la professionalità nel settore estremamente elevata.

Un caso particolare di conflitto tra gestione e normative si genera proprio al momento della produzione dell'EOW  di riciclato ai sensi del DM 152/22, per i rifiuti da Costruzione e Demolizione (C&D), ma vale anche per il granulato di conglomerato bituminoso (DM 69/18). Un impianto ben gestito si organizza per caratterizzare tutti i flussi che sottoporrà a trattamento - lo chiede la norma oltre che la buona pratica - questo permette di intercettare i flussi non conformi che sfuggissero al controllo visivo e di ridurre al minimo i rischi di produrre lotti fuori specifica. E' pur vero però che il test di cessione di cui al vetusto allegato 3 del DM 5 febbraio '98, qualche dispiacere lo regala sempre, per cui qualche non conformità, specie sui grandi numeri è statisticamente verificabile, per questo a questi impianti servono spazi per stoccare e poter mettere in area dedicata i materiali non conformi, quelli in attesa di certificazione e così via. 

Questo significa che l'aggregato riciclato, fresco di produzione, finché non ottiene gli esiti dei controlli analitici cui va sottoposto per la certificazione è formalmente considerato ancora un rifiuto, sebbene più dal punto di vista documentale che sostanziale e, quindi, in questo lasso di tempo che può durare almeno un apio di settimane, deve essere depositato in area debitamente autorizzata e con determinati crismi tecnici. Solo ottenuta la certificazione, sarà un prodotto, libero dai limiti della norma sui rifiuti e depositabile come materia e soprattutto commercializzabile.

E' vero anche che la normativa impone all'impianto di trattamento rifiuti di registrare i propri movimenti sul registro di carico e scarico entro 2 gg dalla loro effettuazione. Il che vuol dire che l'impianto segnerà l'operazione di recupero e "l'uscita" dal registro rifiuti dell'aggregato al massimo 48h la sua produzione. E' un po' come avere il certificato di nascita quando tua madre è ancora in travaglio.

Nel caso in cui la certificazione analitica non andasse a buon fine, l'impianto si riprenderebbe in carico il materiale, rifiuto (diciamo col CER 19 12 09???) per poi o riprocessarlo o allontanarlo. 

La fase di gestione in attesa di certificazione analitica genera non poche problematiche di logistica agli impianti, richiede spesso più movimentazioni (dall'area di produzione a quella di attesa certificazione per poi essere depositato in quella "libera" per gli EOW), con aggravi di impatti e consumi ed espone a sanzioni  quando lo spazio, dovuto al fatto che le uscite degli EOW dipendono molto dalle condizioni esterne (il fatto che non se ne faccia ancora adeguato uso in edilizia, spesso, genera accumuli durante varie fasi dell'anno - e nel contempo si chiede ai trattatori di gestire i flussi di C&D che si originano nei territori). 

A mio avviso questa fase meriterebbe una "semplificazione", pur mantenendo tutte le necessità di riconoscibilità del lotto o di tracciabilità il deposito degli EOW in attesa di certificazione, magari con segnaletica ah hoc andrebbe permessa anche aree non specificatamente autorizzate per lo stoccaggio rifiuti, pur con opportune precauzioni magari (es. teloni), e soprattutto si dovrebbe rivedere il regime sanzionatorio per questi casi, fatte salve le condotte evidentemente fraudolente.

Il Paleocene è bello, ma non ci vivrei

Per tutti i fan dell'uso smodato del termine "Antropocene", mi sia permesso dire, che al netto delle angosce, alla fine, clima...