Nel dibattito tecnico o meno che sia circa gli effetti del cambiamento climatico, intesi come aumento degli eventi estremi, rischio alluvioni, dell'erosione costiera, e così via, spesso, non è accolto con favore od interesse, anzi talvolta l'ostilità è palese, chi pone il tema delle strategie per "contenere" o mitigare o meglio ancora gestire tali effetti. Come se ciò implicitamente implicasse una sorta di accettazione del cambiamento climatico ed una sostanziale rinuncia al contrasto dello stesso. Oppure un'adesione a teorie negazioniste sulla componente antropica della rapida modificazione climatica cui stiamo assistendo, o semplicemente la bieca espressione di una mentalità predatrice sulla natura. Quello che in realtà è avvedutezza e sano pragmatismo, che specie chi governa dovrebbe avere, nella retorica di tanta parte del mondo ambientalista diventa oggetto di aspra critica nel già confuso dibattito pubblico.
Se anche l'umanità fosse davvero così solerte di centrare gli obbiettivi di massima negli scenari IPCC di riduzione delle emissioni si CO2 per il 2050, comunque gli effetti innescati dalla modificazioni climatiche in atto negli ultimi decenni continuerebbero a manifestarsi ed acuirsi nei decenni successivi, magari in modo più lento rispetto alle previsioni più fosche, ma in ogni caso la loro progressione, anche solo per inerzia, resta inevitabile. Il livello eustatico non cesserà di salire, il regime delle precipitazioni continuerà ad evolvere verso una estremizzazione degli eventi e così via. Combattere il cambiamento climatico, lavorando per una riduzione delle emissioni di gas serra, non è in contrasto con la predisposizione di azioni che ci permettano di convivere con tali scenari.
Il racconti di taluni di una sorta di "evitabilità" di determinate prospettive per i prossimi decenni, è fuorviante. Bisogna prenderne consapevolezza per iniziare finalmente concretamente ad agire.
Abbiamo avuto modo di leggere due studi, pubblicati sulla rivista water, che approfondiscono gli aspetti infrastrutturali e socio economici della questione. I risvolti economici del cambiamento climatico sono un tema poco affrontato dal dibattio pubblico, spesso presentato anche in termini negativi dal discorso ambientalista, ma è invece un elemento cruciale se si vuole davvero tentare di gestire tali fenomeni in modo incisivo.
Inondazioni, allagamenti, mareggiate, tempeste, sicittà, saranno sempre più frequenti e intensi, così come i danni economici ad essi connessi, ad infrastrutture, attività produttive e in termini di costi in vite umane. Tale scenario rende sempre più urgenti strumenti assicurativi che consentano di dare sostegno nella fase post evento. Numerose sono, però, le indagini che rivelano come le popolazioni e gli operatori sono maggiormente disposti a contribuire, anche economicamente, a misure che consentano di contenere/evitare gli effetti di tali fenomeni, piuttosto che avere una tutela successiva. Questo è particolarmente spiccato negli operatori agricoli, come evidenziato nell'articolo di water in cui, analizzando le esperienze statunitensi ed australiane di coordinamento per gestire il rischio siccità, si delinea la possibilità di mutuare questi modelli di organizzazione per gestire il rischio alluvionale.
In Australia e California vi sono delle organizzazioni di tipo consortile di proprietari terrieri e di aziende agricole, in cui, i membri, a fronte di meccanismi di incentivo e indennizzo, finanziati in parte dai governi in parte dagli aderenti, a rotazione, mettono a disposizione porzioni delle loro proprietà affinché siano usati come bacino di immagazzinamento acqua, da usare come riserva nelle fasi siccitose, ottenendo un risparmio nei costi per l'approvvigionamento idrico e una forte riduzione delle perdite di produzione dei raccolti. Quello che lo studio suggerisce è l'organizzazione di un analogo modello per la tutela dal rischio alluvionale, in cui in questo caso lo spazio messo a disposizione avrebbe lo scopo di fare da bacino di invaso per portate anomale di corsi d'acqua o eventi meteo, prevenendo allagamenti e esondazioni. In uno scenario simile, in Italia, saremmo facilitati dall'esistenza di soggetti già impiegabili per la gestione di simili accordi - i nostri consorzi di bonifica - questo consentirebbe l'attuazione di uno strumento che vedrebbe contemporaneamente l'impegno della popolazione, di categorie produttive e di una struttura tecnica, diventando una risposta concreta agli scenari di cambiamento climatico. Una risposta dinamica come il quadro che abbiamo davanti.
Nella storia geologica le oscillazioni eustatiche sono state ampie e cicliche, anche dell'ordine delle centinaia di metri, rispetto al livello odierno. Potenzialmente, se le calotte si sciogliessero del tutto il livello dei mari dovrebbe cresce di oltre 60 metri. Le previsioni IPCC da qui al 2100 danno un livello di variazioni compreso tra i 50 e i 310 cm. Anche l'ipotesi di minima è preoccupante. Già oggi, come evidenzia un secondo studio pubblicato sempre su water, 100milioni di persone vivono sotto il livello di marea e ogni 2.5 cm di variazione del livello del medio mare incrementa di 2,5milioni tale numero. Circa il 13% della popolazione mondiale vive entro di 10mt dal livello di alta marea. Quindi soggetti al rischio di aggressione dal mare. Dal 1950 mareggiate e allagamenti sulle coste USA sono cresciute del 27% con danni a molte attività produttive e per esempio riduzione del comparto turistico, questo per dare delle indicazioni sulle ricadute socioeconomiche, che accompagnano le ricadute ambientali. Per un paese peninsulare come l'Italia il problema dovrebbe essere prioritario. Di seguito un breve video con un servizio riassuntivo di Presadiretta che da una panoramica delle questione.
Vi è poi il fenomeno dell'intrusione salina con perdita di terreni coltivabili e risorse idriche per usi irrigui. L'incremento di eventi atmosferici violenti sulle aree costiere, l'erosione ed i costi per il mantenimento delle zone balneabili, sono tutti ulteriori effetti che non si arresteranno, anche negli scenari IPCC più lusinghieri e che si dovrà affrontare. Il non fare nulla in termini preventivi, ovviamente consente di risparmiare risorse oggi, usabili poi affrontare i danni successivi, ma decisamente in termini di avvedutezza e anche contenimento delle perdite umane e materiali appare una scelta discutibile. Inoltre ci sono misure che alla lunga non saranno sempre sostenibili, una esempio è la pratica del ripascimento spiagge post mareggiate. Negli USA dal 1923 si sono spesi quasi 11 milardi di dollari per la ricostituzione delle spiagge della costa atlantica. La vita "media" delle spiagge diventa sempre più breve e i costi sempre più elevati. Al ripascimento si devono abbinare interventi più "hard". E scelte anche radicali. Come la rinuncia alla spiaggia. La costa sabbiosa può essere sostituita con elementi più grossolani, resistenti ad erosione e mareggiate oppure con strutture fisse, dighe e coste armate. Vi sono anche soluzioni più complesse, che comportano la combinazione di più elementi, arretramento della linea di costa, riprofilazione, costruzione di protezioni vegetali e di sistemi litorali artificiali. Nel video che segue un esempio di intervento.
In ogni caso è necessaria una pianificazione degli interventi in ragione delle varianti locali dello scenario globale, che veda anche un'evoluzione degli interventi nel corso del tempo in funzione delle previsioni di mutamento dei fenomeni. Avere una strategia di mitigazione/adattamento consente anche un uso più graduale delle risorse finanziarie (eh sì servono i soldi...) e una loro minor difficoltà di aprovvigionamento, da un punto di vista ambientale questo favorisce anche un adattamento meno traumatico degli ambienti coinvolti e ovviamente ridurre sensibilmente i costi in danni e vite degli effetti del cambiamento climatico.
Un approccio di questo tipo richiede, però, una forte sinergia istituzioni e portatori di interesse, lungimiranza, competenza tecnica e scientifica e, sopratutto una certa urgenza e dovrebbe essere quanto mai auspicabile in aree costiere, come per esempio quella alto adriatica, densamente popolate, con forti insedimaneti produttivi e importanti centri artistici.
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