sabato 13 novembre 2021

Se Comprare l'ombrello diventa disfattismo

Nel dibattito tecnico o meno che sia circa gli effetti del cambiamento climatico, intesi come aumento degli eventi estremi, rischio alluvioni, dell'erosione costiera, e così via, spesso, non è accolto con favore od interesse, anzi talvolta l'ostilità è palese, chi pone il tema delle strategie per "contenere" o mitigare o meglio ancora gestire tali effetti. Come se ciò implicitamente implicasse una sorta di accettazione del cambiamento climatico ed una sostanziale rinuncia al contrasto dello stesso. Oppure un'adesione a teorie negazioniste sulla componente antropica della rapida modificazione climatica cui stiamo assistendo, o semplicemente la bieca espressione di una mentalità predatrice sulla natura.  Quello che in realtà è avvedutezza e sano pragmatismo, che specie chi governa dovrebbe avere, nella retorica di tanta parte del mondo ambientalista diventa oggetto di aspra critica nel già confuso dibattito pubblico.

Se anche l'umanità fosse davvero così solerte di centrare gli obbiettivi di massima negli scenari IPCC di riduzione delle emissioni si CO2 per il 2050,  comunque gli effetti innescati dalla modificazioni climatiche in atto negli ultimi decenni continuerebbero a manifestarsi ed acuirsi nei decenni successivi, magari in modo più lento rispetto alle previsioni più fosche, ma in ogni caso la loro progressione, anche solo per inerzia, resta inevitabile. Il livello eustatico non cesserà di salire, il regime delle precipitazioni continuerà ad evolvere verso una estremizzazione degli eventi e così via. Combattere il cambiamento climatico, lavorando per una riduzione delle emissioni di gas serra, non è in contrasto con la predisposizione di azioni che ci permettano di convivere con tali scenari. 

Il racconti di taluni di una sorta di "evitabilità" di determinate prospettive per i prossimi decenni, è fuorviante. Bisogna prenderne consapevolezza per iniziare finalmente concretamente ad agire.

Abbiamo avuto modo di leggere due studi, pubblicati sulla rivista water, che approfondiscono  gli aspetti infrastrutturali e socio economici della questione. I risvolti economici del cambiamento climatico sono un tema poco affrontato dal dibattio pubblico, spesso presentato anche in termini negativi dal discorso ambientalista, ma è invece un elemento cruciale se si vuole davvero tentare di gestire tali fenomeni in modo incisivo.

Inondazioni, allagamenti, mareggiate, tempeste, sicittà, saranno sempre più frequenti e intensi, così come i danni economici ad essi connessi, ad infrastrutture, attività produttive e in termini di costi in vite umane. Tale scenario rende sempre più urgenti strumenti assicurativi che consentano di dare sostegno nella fase post evento. Numerose sono, però, le indagini che rivelano come le popolazioni e gli operatori sono maggiormente  disposti a contribuire, anche economicamente, a misure che consentano di contenere/evitare gli effetti di tali fenomeni, piuttosto che avere una tutela successiva. Questo è particolarmente spiccato negli operatori agricoli, come evidenziato nell'articolo di water in cui, analizzando le esperienze statunitensi ed australiane di coordinamento per gestire il rischio siccità, si delinea la possibilità di mutuare questi modelli di organizzazione per gestire il rischio alluvionale.

In Australia e California vi sono delle organizzazioni di tipo consortile di proprietari terrieri e di aziende agricole, in cui, i membri, a fronte di meccanismi di incentivo e indennizzo, finanziati in parte dai governi in parte dagli aderenti, a rotazione, mettono a disposizione porzioni delle loro proprietà affinché siano usati come bacino di immagazzinamento acqua, da usare come riserva nelle fasi siccitose, ottenendo un risparmio nei costi per l'approvvigionamento idrico e una forte riduzione delle perdite di produzione dei raccolti. Quello che lo studio suggerisce è l'organizzazione di un analogo modello per la tutela dal rischio alluvionale, in cui in questo caso lo spazio messo a disposizione avrebbe lo scopo di fare da bacino di invaso per portate anomale di corsi d'acqua o eventi meteo, prevenendo allagamenti e esondazioni. In uno scenario simile, in Italia, saremmo facilitati dall'esistenza di soggetti già impiegabili per la gestione di simili accordi - i nostri consorzi di bonifica - questo consentirebbe l'attuazione di uno strumento che vedrebbe contemporaneamente l'impegno della popolazione, di categorie produttive e di una struttura tecnica, diventando una risposta concreta agli scenari di cambiamento climatico. Una risposta dinamica come il quadro che abbiamo davanti.

Nella storia geologica le oscillazioni eustatiche sono state ampie e cicliche, anche dell'ordine delle centinaia di metri, rispetto al livello odierno. Potenzialmente, se le calotte si sciogliessero del tutto il livello dei mari dovrebbe cresce di oltre 60 metri. Le previsioni IPCC da qui al 2100 danno un livello di variazioni compreso tra i 50 e i 310 cm. Anche l'ipotesi di minima è preoccupante. Già oggi, come evidenzia un secondo studio pubblicato sempre su water,  100milioni di persone  vivono sotto il livello di marea e ogni 2.5 cm di variazione del livello del medio mare incrementa di 2,5milioni tale numero. Circa il 13% della popolazione mondiale vive entro di 10mt dal livello di alta marea. Quindi soggetti al rischio di aggressione dal mare. Dal 1950 mareggiate e allagamenti sulle coste USA sono cresciute del 27% con danni a molte attività produttive e per esempio riduzione del comparto turistico, questo per dare delle indicazioni sulle ricadute socioeconomiche, che accompagnano le ricadute ambientali. Per un paese peninsulare come l'Italia il problema dovrebbe essere prioritario. Di seguito un breve video con un servizio riassuntivo di Presadiretta che da una panoramica delle questione.

Vi è poi il fenomeno dell'intrusione salina con perdita di terreni coltivabili e risorse idriche per usi irrigui. L'incremento di eventi atmosferici violenti sulle aree costiere, l'erosione ed i costi per il mantenimento delle zone balneabili, sono tutti ulteriori effetti  che non si arresteranno, anche negli scenari IPCC più lusinghieri e che si dovrà affrontare. Il non fare nulla in termini preventivi, ovviamente consente di risparmiare risorse oggi, usabili poi affrontare i danni successivi, ma decisamente in termini di avvedutezza e anche contenimento delle perdite umane e materiali appare una scelta discutibile. Inoltre ci sono misure che alla lunga non saranno sempre sostenibili, una esempio è la pratica del ripascimento spiagge post mareggiate. Negli USA dal 1923 si sono spesi quasi 11 milardi di dollari per la ricostituzione delle spiagge della costa atlantica. La vita "media" delle spiagge diventa sempre più breve e i costi sempre più elevati. Al ripascimento si devono abbinare interventi più "hard". E scelte anche radicali. Come la rinuncia alla spiaggia. La costa sabbiosa può essere sostituita con elementi più grossolani, resistenti ad erosione e mareggiate oppure con strutture fisse, dighe e coste armate. Vi sono anche soluzioni più complesse, che comportano la combinazione di più elementi, arretramento della linea di costa, riprofilazione, costruzione di protezioni vegetali e di sistemi litorali artificiali. Nel video che segue un esempio di intervento.

In ogni caso è necessaria una pianificazione degli interventi in ragione delle varianti locali dello scenario globale, che veda anche un'evoluzione degli interventi nel corso del tempo in funzione delle previsioni di mutamento dei fenomeni. Avere una strategia di mitigazione/adattamento consente anche  un uso più graduale delle risorse finanziarie (eh sì servono i soldi...) e una loro minor difficoltà di aprovvigionamento, da un punto di vista ambientale questo favorisce anche un adattamento meno traumatico degli ambienti coinvolti e ovviamente ridurre sensibilmente i costi in danni e vite degli effetti del cambiamento climatico. 

Un approccio di questo tipo richiede, però, una forte sinergia istituzioni e portatori di interesse, lungimiranza, competenza tecnica e scientifica e, sopratutto una certa urgenza e dovrebbe essere quanto mai auspicabile in aree costiere, come per esempio quella alto adriatica, densamente popolate, con forti insedimaneti produttivi e importanti centri artistici.

giovedì 5 agosto 2021

Levarsi la terra da sotto i piedi. Letteralmente. Dati consumo di suolo in Veneto 2021



    E' di recente presentazione il report annuale ISPRA sull'andamento del consumo di suolo in Italia, edizione 2021. Nonostante, ormai, gli effetti negativi della perdita di suolo e della trasformazione fondiaria siano arcinoti, specie in termini di incremento del dissesto geo-idrologico, con acuimento del rischio idraulico, anche per il combinato disposto col cambiamento climatico, il consumo di suolo non si ferma, al massimo rallenta un po'; rallentamento che non è ancora chiaro, lo capiremo solo nel corso del prossimo biennio, se sia dovuto agli effetti della pandemia sull'economia o a una volontà collettiva e istituzionale.

       Nel 2020, in Italia si sono persi  altri 57 km2 di superficie non trasformata, portanto a 21mila Km2 complessivi la copertura artificiale del suolo. Anche quest'anno i due soggetti "primatisti" a livello regionale sono Lombardia (+765ha) e Veneto (+682ha). Dopo Roma e Brescia, è Vicenza (+ 172ha), la provincia  con maggiore perdita di suolo. E tra le prime 15 provincie ci sono altre 3 veneto (Vr, Tv, Pd). Padova e Treviso sono poco sotto al dato del 20% di suolo consumato su superficie complessiva (precisamente 19 e 17%), sono, però, quelle che registrano il maggior incremento rispetto all'anno precendente (+0,94% e + 0,44%). Di converso troviamo, tra le venete, solo Belluno sotto il 3% ( questo anche per la sua pecualiare geografia). A livello comunale su scala nazionale, tra i primi 10 comuni per superfiche consumata troviamo Vicenza per il Veneto.

    Facendo un focus regionale, si veda la figura, nel 2020 i comuni con maggior artificializzazione di suolo sono Padova (dove il dato è ormai al 50%), Spinea (area Venezia, col 43% ) e Noventa Padovana col 42%. Questo in termini percentuali. In termini di numeri assoluti abbiamo Vicenza (37Ha), Roncade (29 Ha) e Sona (26Ha).

    Il consumo di suolo comporta una perdita di capacità di immagazzinamento d'acqua nel sottosuolo. questo significa depauperamento delle riserve idriche e maggior vulnerabilità a eventi metererologici intensi.

    Si stima che nel periodo 2012-2020 si siano persi 8,8 milioni di m3 di acqua potenzialmente disponibile; il Veneto, con una perdita del 15,86% di tale totale è il secondo, dopo la solita Lombardia, in questa triste classifica. A parte Belluno e Rovigo, nel periodo interessato, tutte le province venete hanno registrato perdite tra il 15 e il 20% delle risorse idriche immagazzinabili. Con forti ricadute, per esempio sull'agricoltura. In termini economici, gli effetti di tale fenomeno, sono stati calcolati in 345,3 milioni di euro.

    Un ultimo focus, d'interesse sopratutto per l'ambito costiero, è l'effetto del consumo di suolo sui fenomeni di erosione costiera. L'aspetto è di particolare interesse, stante l'alto valore economico insediato nella fascia costiera alto adriatica (per turismo, agricoltura, industria e portualità), che per l'elevato numero di popolazione residente. Andando ad analizzare  la distribuzione  delle principali urbanizzazioni nelle unità fisiografiche costiere principali (aree omogenee in cui è stata suddivisa tutta la costa adriatica), si osserva come le maggiori trasformazioni in alto adriatico si concentrino a ridosso di Trieste e Venezia. Il dato veneziano deve destare particolare allarme, essendo riguarde un territorio già pesantemente artificializzato e in un contesto molto vulnerabile come quello della laguna centrale e contermine. Anche perché, se qualcuno pensa che il MoSe sia la risoluzione finale, non si cura dei dati a lungo termine oltre che delle osservazioni contingenti

    Questi dati dovrebbero servire a rivedere pesantemente le pianificazioni territoriali, ma per davvero, non solo a livello di dichiarazioni velleitarie.

 

 


 


 


martedì 1 giugno 2021

C'erano una volta le mezze stagioni...

L'area dell'Alto Adriatico, rischia nel prossimo trentennio di trovarsi in una situazione paradossale. Ovverio contemporamente esposta al rischio siccità e all'incremento di fenomeni pluviali intenti. Ossia a un'estremizzazione del clima. Questo è dovuto al più ampio fenomeno del cambiamento climatico globale e alle sue interazioni su scala locare. L'INGV riporta che l’osservatorio Europeo per il monitoraggio delle zone a rischio di siccità (EDO – European Drought Observatory) aggiorna regolarmente le mappe delle zone più a rischio di desertificazione. Nella situazione situazione aggiornata alla prima decade di maggio 2021, risulta evidente come la costa emiliana, fino a lambire la zona costiere rodigina, risulta esposta a fenomeni siccitosi importanti. Il trend sembrerebbe rivelare una tendenza di questa zona ad espandersi verso nord. Vedremo i dati dei prossimi mesi, se corroboreranno tale assunto. 

Di contro uno studio recente sugli scenari futuri dei fenomeni pluviali in Italia, porta a evidenziare che negli scenari peggiori e intermedi di cambiamento climatico previsti per i prossimi trent'anni dai rapporti IPCC è previsto un incremento potenziale di oltre il 30% delle precipitazioni nel nord Italia (in calo invece a sud). Tale scenario, purtroppo, risulta nella sostanza il medesimo anche nello scenario di forte attenuazione delle emissioni e quindi dell'incremento di temperaturaal di sotto del 1,5 °C a livello globale. Solo un inversione di tendenza potrebbe prevenirlo.  Non è facile delineare con facilità tali scenari poiché le peculiarità locali - nel caso del nordest per esempio la relativa vicinanza mare con montagne - influiscono in misura non facilmente quantificabile sulla loro evolozione.

Questo ci porta a rilevare che stiamo andando verso una situazione caratterizzata da periodi siccitosi, intervallati a pioggie intense.  E' necessario pertanto studiare l'evoluzione del rischio geoidrologico, le capacità di stoccaggio e laminazione delle acque, la difesa delle coste e la pianificazione urbana in ragione di tali scenari, altrimenti si riscbia di trovarci non troppo in la nel tempo in scenari peggiorativi sia per le attività agricole che per il rischio alluvioni per esempio.



 

 

sabato 13 marzo 2021

Siti contaminati in ambito di gronda lagunare

ISPRA ha recentemente presentato il primo report sulla situazione processi di bonifica ambientale in Italia, Il rapporto illustra e analizza i dati del 2020 relativi al numero e alle superfici interessate da procedimenti di bonifica regionali al 31.12.2019. I dati raccolti sono relativi ai procedimenti di bonifica regionali la cui competenza è in capo alle Regioni o a enti territoriali da esse delegate, sono esclusi i procedimenti relativi ai Siti di Interesse Nazionale (SIN) di competenza del MATTM (ora MiTE). I dati sono disponibili per tutte le regioni /province autonome d’Italia con livello di dettaglio fino al singolo comune e consentono di descrivere l’iter del procedimento e lo stato della contaminazione per i procedimenti in corso e per quelli conclusi. Il numero totale di procedimenti è pari a 34.478 di cui 16.264 in corso e 17.862 conclusi. La superficie interessata dai procedimenti di bonifica è nota solo per una parte di essi (67%), è pari a 66.561 ettari (666 kmq) e rappresenta lo 0,22 % della superficie del territorio italiano; di questi 37.816 ettari sono relativi a procedimenti in corso e 28.745 ettari sono relativi a procedimenti conclusi. 

La questione bonifiche è di estrema rilevanza per molteplici aspetti, in primis perché la salubrità determina anche la fruibilità di tanti luoghi in Italia che, ad oggi risulta fortemente condizionata dalla presenza di siti contaminati, pregiudicando lo sviluppo di molti territori. Con ricadute ambientali, sociali ed economiche pesanti. Da segnalare, non per partigianeria, ma per l'indubbia valenza dell'iniziativa, la mobilitazione lanciata dai Radicali sul tema del completamento delle bonifiche dei principali Siti d'Interesse Nazionale, in cui i processi di risanamento ambientale sono ancora troppo indietro. 

Il quadro che esce dal rapporto ci mostra che il 52% dei procedimenti di bonifica si sono conclusi, mentre per quelli in itinere, spesso ormai da diversi lustri, la situazione è variegata, con molti in fase di istruttoria, o di valutazione progettuale.

Dai dati su base regionale, risulta per il Veneto una situazione non troppo rasserenante: Il 43% dei procedimenti è in corso, di ben il 12% (352 in numeri assoluti), non è disponibile lo stato di avanzamento. Per altro i procedimenti in corso riguardano una superficie complessiva da bonificare, ben maggiore di quella degli iter conclusi - sebbene questi ultimi siano numericamente superiori. Parliamo di 1056ha, contro 429ha, per dare un dato, 1500 campi da calcio, per dare un'idea.

La problematica interessa particolarmente l'area perilagunare, perché sia in termini di superficie che di numero di procedure, l'area metropolitana di Venezia, con 253 iter in corso, pari a 335ha di superficie, guida la classifica delle provincie venete in quest'ambito, seguita da Treviso, Verona (che ha più procedimenti, ma meno aree) e Padova. E ciò non è dovuto solo alla presenza del S.I.N di Porto Marghera (che ovviamente è comunque il "contributore" maggiore).

Le criticità, purtroppo, non sono limitate alla sola area industriale, ma anche in altre zone della Città Metropolitana. Vedi il caso di Mira, con 7 siti. Nella classifica dei comuni per numero di siti contaminati, ove Venezia primeggia, con 50 siti contaminati (di cui solo 1 con bonifica conclusa, 29 in corso e 20 con analisi di rischio approvata), ai primi 10 posti  troviamo quattro comuni metropolitani (Venezia appunto, Mira, Jesolo, Portogruaro), tutti con territori nella gronda lagunare. Sottolineamo questo aspetto per evidenziare come sia forte la pressione ambientale nel bacino scolante, con ricadute anche nei processi di tutela degli ambienti idrici e di contrasto al dissesto geoidrologico e, quindi, alla mitigazione del rischio idraulico in questo territorio. 

I siti contaminati sono spesso in stato di abbandono e degrado e la manacata esecuzione delle bonifiche spesso determinano il perdurare di fenomeni di inquinamento che determinano, in un circolo vizioso, l'estensione del deterioramento ambientale anche alle aree prossime al sito.

Venezia fortunatamente guida anche la classifica dei comuni con più procedura di bonifica concluse, ben 115,  la strada è, però, ancora lunga assai.

Il report ISPRA finalmente consente di avere un'immagine chiara e complessiva sul tema bonifiche, ma è anche una forte chiamata delle Istituzioni alle proprie responsabilità, non che di tutti i soggetti coinvolti. Particolarmente in area perilagunare, dove questo tema si somma alle problematiche di dissesto geoidrologico per i fenomeni globali di cambiamento climatico e per i fenomeni locali, quali subsidenza e pressione antropica. Se non si affronta la questione davvero, dando tempi e metodi ai processi in corso e risorse, il risanamento ambientale e il contrasto al dissesto dell'area costiera veneta e la conseguenze riduzione del rischio ambientale resteranno solo chimere, così come  la riqualificazione socioeconomica).





Bibliografia: Lo stato delle bonifiche nei siti contaminati in Italia: dati regionali, ISPRA, 2021 

lunedì 22 febbraio 2021

Le Acque del Veneto: tra speranze e preoccupazioni

 Lo stato di salute degli ambienti idrici del Veneto è rappresentabile con un quadro di luci e ombre, quadro non statico, ma in evoluzione. Non sempre verso scenari migliori. La Direttiva Acque (2000/60/UE, di cui più volte abbiamo parlato), impone il monitoraggio delllo stato chimico, ecologico e biologico degli ambienti idrici, non che obbiettivi di risanamento, tutelare la risorsa idrica, significa tutelare ambienti e prevenire situazioni di degrado e dissesto, tal interventi vanno di pari passo con le iniziative della Direttiva Alluvioni, per ridurre il rischio idraulico. 

In attesa che ARPAV licenzi i dati del monitoraggio 2016-2019, dove sono stati introdotti anche nuovi parametri di monitoraggio (PFAS, microplastiche...), visionando il Rapporto sullo Stato dell'ambiente del Veneto, anno 20202, capitolo idrosfera, in cui si presentano i dati del monitoraggio 2014-2016, possiamo già rilevare per i vari tipi di ambiente, diverse evidenze piuttosto significative.

ACQUE MARINO COSTIERE. Stiamo parlando dei bacini individuati nella fascia di fronte alla costa veneta, unitamente ai due specchi principali antistanti la Laguna di Venezia. Da un punto di vista chimico i corpi costieri della costa Nord, ossia dalla foce del Tagliamento all'inzio del litorale lagunare, e sud, ossia quelli antistanti al delta del Po, sono classificati come "scarsi", mentre "buoni" gli altri. I corpi settentrionali presentano criticità col il parametro Mercurio (Hg), quelli deltizi a causa del rinvenimento durante il monitoraggio di Idrocarburi Policlici Aromatici (IPA) e Piombo (Pb). Ecologicamente parlando tutti qesti ambienti sono considerati "sufficienti", tale classificazione ovviamente indica una certa precarietà e sopratutto non è il parametro obbiettivo rispetto alla Direttiva Acque. Da un punto di vista biologico i rilievi attribuiscono uno stato "buono" per i corpi ante Laguna e per gli specchi costieri fino alla foce del Tagliamento; "mediocri" sono giudicati gli stati dei bacini costieri dalla foce del Brenta al Delta del Po. 

Non occorre eccessiva arguzia per cogliere la rilevanza  che  hanno gli apporti dei corsi d'acqua per determinra tali condizioni.

ACQUE di TRANSIZIONE. Sono corpi idrici di terra, spesso salmastri prossimi alla linea di costa, ossia lagune, zone umide. Queste presentano varie criticità: le zone umide del Delta del Po, la Laguna di Venezia, hanno stati chimici per lo più "NON buoni", per la presenza di Hg, IPA particolarmente. Ne consegue che lo stato ecologico risulta "scarso" per tutte per tutte le zone deltizie; la Laguna invece è bipartita: "scarsi" gli specchi perilagunari, "sufficienti" quelli a ridosso del cordone litoraneo. Queste evidenze dovrebbero indurre a minor foga coloro che invocano lo scarico di nuove canalizzazioni in Laguna, ritenendoli pure "vivificanti".

ACQUE INTERNE, stiamo parlando dei varic corsi d'acqua che solcano la nostra regione. si rileva che tra i corpi idrici "naturali", circa il 18%  è classificato in stato chimico "scarso" o addirituttra "cattivo", e circa tra il 20-25% "sufficiente", quindi in bilico. Tali numeri salgono al 30% e al 45% per i corsi "Non naturali", ossia fortemente modificati o artificiali. Tra i parametri più problematici i pesticidi ei PFOS (monitorati dal 2015), i primi per tutti i corsi monitorati i secondi particolarmente per il Bacchiglione e il Fratta Gorzone (non a caso si originano nella zona Vicentina). Questi dati pongono fortemente il tema dell'attenzione che si debba porre alle pratiche agricole in uso nella nostra regione e alla loro sostenibilità in relazione alla tutela della risorsa idrica e degli ambienti acquatici più in generale. Sopratutto nell'interazione con la rete idrografica artificiale, che spesso esisten proprio in quanto a servizio delle aree agricole. Circa il ritrovamento di PFOS, questo non può che essere specchio evidente di quanto grave sia la contaminazione ormai. 

ACQUE SOTTERRANEE. Sono fondamentali per l'irrigazione e per l'uso potabile. La rete di monitoraggio riguarda le falda più superficiali, dei punti monitorati il 38% ha presentato riscontri analitici che ne hanno comportato la classificazione come "scadente". Le sostanze più problematiche sono i contaminanti inorganici, di nuovo i pesticidi e i metalli - sui metalli andrebbe, però, fatto un ragionamento più complesso, poiché, almeno alcuni di quelli rivenuti, dipendono anche da fattori geologici, il c.d. "fondo naturale" - i PFAS non risultano rilevanti, ma ciò è dovuto al fatto che durante questo monitoraggio non erano ancora inseriti tra i parametri da controllare. E' probabile, quindi, che nel prossimo rapporto, purtroppo, ci si debba aspettare un peggioramento per queste sostanze.

Come premesso, quindi, il quadro dello stato degli ambienti idrici del Veneto, è complesso, variegato e diciamo, francamente, non entusiasmante. Tale situazione è l'evidente risultato delle pressioni antropiche, importanti, a cui è sottoposto il territorio. Ecco, perché, sono necessari interventi organici, ponderati e coordinati, non che un uso attento dei dati dei monitoraggi, per cercare di rendere meno fosco lo sviluppo di tale situazione.

 

 

 

 

 

Bibliografia:

Rapporto sullo stato dell'ambiente Veneto - IDROSFERA, Anno 2020. Arpa Veneto

Il Paleocene è bello, ma non ci vivrei

Per tutti i fan dell'uso smodato del termine "Antropocene", mi sia permesso dire, che al netto delle angosce, alla fine, clima...